“Troppi datori di lavoro, responsabili delle risorse umane, persino colleghi (di entrambi i sessi), in Italia, considerano la maternità, e il tempo che richiede, un intoppo nel flusso organizzativo di cui far carico solo la lavoratrice interessata, quando non una sorta di tradimento verso l’azienda e le sue pretese totalizzanti. Un tradimento che cancella la storia pregressa di competenza e affidabilità che una lavoratrice ha costruito nel tempo, come hanno sperimentato Isabella, Claudia o Arianna”
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“Se le norme di legge non sono sempre sufficienti a garantire alle lavoratrici madri con un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, insieme al tempo per la cura, il di- ritto al mantenimento del posto di lavoro, della continuità professionale e di progressione di carriera (dove c’è), la situazione è molto peggiore per le lavoratrici “non standard”: con contratti di lavoro a termine o libere professioniste e freelance. Le prime sono vulnerabili al mancato rinnovo del contratto di lavoro, un modo “elegante” e del tutto legale di disfarsi di una lavoratrice di cui si teme un cambiamento di priorità e investimenti. È opportuno ricordare che, secondo l’ultimo rapporto annuale Istat, la quota di lavoratori non-standard – perché a tempo determinato, con contratti di collaborazione o in part-time involontario – raggiunge il 47,2 per cento tra le donne giovani (a fronte del già elevato 34,4 per cento dei coetanei), il 36,9 per cento tra le residenti nel Mezzogiorno (a fronte del 22,9 per cento tra gli uomini della stessa ripartizione), il 36,6 per cento tra le donne che hanno conseguito al massimo la licenza media (a fronte del 19,4 per cento degli uomini con lo stesso livello di istruzione). Arriva al 41,8 per cento tra le straniere (rispetto al 28,8 per cento tra gli
stranieri).
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“La minore tutela riguarda anche gli uomini che si trovano in condizioni di lavoro non standard quando diventano padri. Se capita spesso che un lavoratore padre dipendente a tempo indeterminato venga neppure troppo velatamente dissuaso dal prendere una parte del congedo genitoriale, questa dissuasione avviene a monte nel caso di un lavoratore padre a tempo determinato. Se invece è freelance, non ha diritto neppure ai pochi giorni di congedo di paternità. Se non si vedono mobilitazioni maschili contro queste differenze e più in generale per un sistema che favorisce un uso più simmetrico del congedo tra pari e madri, come avviene anche in Paesi vicini e simili, come Spagna e Portogallo, è perché in Italia i modelli di genere rigidi e asimmetrici, che hanno la loro esplicitazione proprio nei modelli di maternità e paternità, sono ancora forti e diffusi, nonostante vi siano stati cambiamenti, con l’emergere di un modello di paternità accudente; anche se questa è ancora vista con una certa ambivalenza e spesso descritta in termini squalificanti (“mammo”).”
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“Ma il nostro è un Paese in cui non solo gli stereotipi di genere resistono più che nella maggior parte dei Paesi democratici avanzati, ma anche dove la quota di aziende medie e piccole, con le loro difficoltà organizzative, è elevata, e dove il lavoro non standard è in aumento, in molti casi smussando, quando non cancellando del tutto, i confini tra occupazione formale e informale, legale e in nero. Se ciò rappresenta un rischio di insicurezza sia per gli uomini sia per le donne, per le seconde presenta il rischio aggiuntivo di assenza di tutela proprio in un tornante cruciale della vita, la maternità. È inutile stupirsi e lamentarsi se oggi si fanno figli sempre più tardi, sempre meno, o per nulla, anche quando si vorrebbe averne almeno uno, o uno in più. Allo stesso tempo, è inutile stupirsi della bassa competitività italiana sul piano economico e sociale. Un Paese in cui una fetta troppo larga di imprese pensa che la competitività si giochi sui bassi salari e lo sfruttamento dei lavoratori e lavoratrici e non sull’investimento e valorizzazione del capitale umano, oltre che su ricerca e capacità di innovazione, e dove persino le più elementari politiche di conciliazione e condivisione stenta- no a trovare adeguata attenzione nell’agenda politica, mette in atto una triplice mossa autolesionista, se non suicida: scoraggia la fecondità, perde una quota crescente di giovani che cercano altrove la valorizzazione delle proprie capacità e lascia ai margini, quando non scoraggia e respinge, la metà del capitale umano potenzialmente disponibile, quello delle donne, specie quando diventano madri”
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